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Caravaggio senza veli

di Marco Bona Castellotti

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1 gennaio 2010

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Questa straordinaria opera su muro è dipinta a olio, non a fresco, il che collima appieno con la tecnica di Caravaggio che non si applicò mai alla realizzazione di affreschi. Citato nella biografia del Bellori del 1672, la più dettagliata sul pittore, l'affresco del casino Del Monte, una volta pubblicato, divise la critica in due schieramenti: uno favorevole a riconoscere l'autografia caravaggesca, e uno contrario; ma a restauro concluso, il giudizio affermativo divenne, tranne rare eccezioni, unanime. Fra i primi a sostenere la paternità caravaggesca fu Mina Gregori che, alle prese con la lettura della curiosa iconografia "alchemica", suggerita probabilmente dallo stesso Del Monte e messa in scena da un genio come Caravaggio, ventilò un'ipotesi di cui si è un po' perduta la memoria e che ora è tornata alla ribalta nella recentissima monografia di Rossella Vodret (Caravaggio, Milano 2009). Secondo la lettura della Gregori, a Plutone e a Nettuno e forse anche a Giove, che però è in penombra e quindi ha il volto semicoperto, Caravaggio prestò il proprio sembiante.

In altre parole nelle tre divinità che impersonano gli elementi dell'aria, del fuoco, dell'acqua che compongono la materia, il pittore si sarebbe autoritratto.
Per ottenere l'acrobatico effetto di sotto in su, già esperimentato da Giulio Romano nella camera del Sole e della Luna in Palazzo Te a Mantova, il Caravaggio piazzò uno specchio sui ponteggi, si mise nudo nelle diverse pose, non nascondendo le prerogative maschili, visibili specialmente nel corpulento Plutone, il cui sesso, nell'Ottocento, fu nascosto sotto un drappo, che cadde in seguito al restauro del 1990.

L'identificazione della fisionomia del Caravaggio, solito ad autoritrarsi in opere di vario soggetto, sia profane che sacre, è inconfondibile. Infatti se guardiamo il volto barbuto e irsuto di Nettuno non può non tornare in mente la vivida descrizione che compare nel verbale dell'interrogatorio cui fu sottoposto tale Pietropaulo nel 1597, un poveraccio che faceva il garzone nella bottega di un barbiere a Roma nei pressi della chiesa di Sant'Agostino, dal quale il Caravaggio andava ad «acconciarsi», e una volta andò a farsi «medicare una forchatura». La deposizione rilasciata da Pietropaulo ai birri che stavano indagando su un fatto di cronaca nera, cui il pittore era del tutto estraneo, parla chiaro: «Questo pittore è un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non tropo bene in ordine, che portava un paio di calzette negre un poco stracciate che porta li capelli grandi longhi dinnanzi». Tutto corrisponde a un altro autoritratto del Caravaggio, quello che lampeggia nello sfondo del Martirio di San Matteo a sinistra, ed è di un uomo fra gli astanti che guarda pieno di curiosità la scena del martirio. Quest'uomo in piedi, un semplice comprimario visto di fianco, è avvolto in un mantello scuro fino alla cinta, ma per il resto il suo corpo parrebbe ignudo; parrebbe perché non è chiaro a chi appartengano i glutei luminosi che appaiono nel buio.

Siamo comunque di fronte a un'altra sferzata ironica che è erroneo interpretare come un atto di irriverenza, o peggio, come un segno di intenzionale vilipendio. Si tratta piuttosto del divertissement di un virtuoso del pennello, alla luce del quale si può anche capire perché il ferocissimo Cerbero del gabinetto del cardinale Del Monte, si sia trasformato in un vispo cagnolino meticcio, le cui tre teste sono piene di espressività; e se non fosse per quella macchia bianca sotto il muso – osserva la Vodret – potremmo tranquillamente affermare che a far da Cerbero il Caravaggio avesse arruolato il suo cane Cornacchia, quel barbone nero che, secondo il biografo Giovanni Baglione, era capace di fare bellissimi giochi.

1 gennaio 2010
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